La violenza di genere: un problema di società
Intervento al comitato cantonale del PS Ticino del 9 dicembre 2021.
Care compagne, cari compagni
Stamattina sfogliando La Regione ho trovato un interessante approfondimento sul diritto all’interruzione di gravidanza, che sta per compiere – appena – 20 anni.
L’articolo parte da una tesi di master svolta da Marina De Toro all’Università di Losanna e parla delle difficoltà che le donne hanno dovuto affrontare per ottenere questo diritto, giunto come il diritto di voto in chiaro ritardo rispetto a paesi a noi confinanti, ma parla anche della lotta femminista più in generale per l’autodeterminazione del proprio corpo e della propria sessualità, dei numerosi aborti illegali che venivano fatti con pericolose conseguenze per la salute della donna e del tabù sociale che ancora oggi circonda questo tema. In conclusione, la storica Marina De Toro fa un parallelismo con la situazione al giorno d’oggi e dice –cito – “il corpo delle donne continua ad essere un campo di battaglia su cui tutti si sentono legittimati a prendere parola anche se non li concerne». Un corpo femminile insomma costantemente politicizzato, concepito non come un bene individuale ma comune; da tenere al centro dell’attenzione della società e al suo servizio; da possedere, difendere, segregare, mostrare, controllare. La manifestazione forse più significativa dell’oppressione verso le donne nel sistema patriarcale vigente.
Riflessione che non possono che trovarci d’accordo e strettamente collegate con il caso toccato dal recente servizio di Falò, un altro esempio del sistema patriarcale che pensa che il corpo delle donne sia da possedere e controllare per il piacere degli uomini. Un sistema che minimizza la gravità della violenza di genere e che non crede sufficientemente alle vittime. Per questo motivo ho trovato il titolo del servizio, “Rompere il silenzio”, perfetto. Un titolo che mostra come le vittime di molestie e violenze sessuali diventano ancora troppo spesso vittime due volte. La prima quando subiscono la violenza, la seconda quando decidono di parlarne e si scontrano con la nostra società patriarcale. La vergogna di quanto è accaduto, la (sbagliata!) sensazione che in quanto donna si è in qualche modo co-responsabili di quanto successo, il timore di non essere credute. In particolare quando il perpetratore è una persona conosciuta con un ruolo di potere, queste sensazioni spingono molte donne e vittime nel silenzio e a non sporgere denuncia.
Per fortuna negli ultimi anni molte donne e persone coraggiose hanno rotto questo silenzio e con il movimento #MeToo si è creata maggior sensibilità. A nome del Partito esprimo la mia solidarietà e vicinanza con le donne che si sono espresse a Falò, trovando il coraggio di denunciare quanto hanno subito e il muro con il quale si sono scontrate, con procedure dell’amministrazione cantonale totalmente inadatte e troppa poca sensibilità. Con il loro coraggio hanno sicuramente dato forza ad altre vittime di farsi avanti, di denunciare e di parlare di quanto è successo a loro. Così come è ammirevole e da sostenere il coraggio delle donne che si sono espresse all’interno della RSI, dando il via a un’inchiesta indipendente. Parlarne è il primo passo affinché qualcosa cambi.
Perché lo sappiamo, purtroppo quanto mostrato nel servizio di Falò è solo un caso tra tanti. Domani finisce la cosidetta campagna “16 giorni contro la violenza sulle donne”, una campagna internazionale che inizia il 25 novembre – la giornata internazionale contro la violenza sulle donne – e si conclude il 10 dicembre – la Giornata mondiale dei diritti umani; una campagna che ha portato maggiormente questo tema fondamentale all’attenzione dei media e dell’opinione pubblica. Un tema che non possiamo più ignorare!
Ogni due settimane, una donna viene uccisa in Svizzera in un contesto familiare. Ogni giorno, donne in Svizzera e all’estero subiscono molestie, violenze e stupri. Avere cifre attendibili è difficile, perché come detto spesso si decide di non denunciare quanto avvenuto. E come non capirlo considerando che per esempio qualche settimana fa un giudice del Canton Soletta ha definito, nel leggere la sentenza, uno stupro “blando” perché l’atto è durato poco ed è stato commesso con “la minima violenza necessaria”. Violenza necessaria? Parole impronunciabili, ma che sono lo specchio di una mentalità ancora diffusa. Eh sì, perché ancora oggi che nell’attuale codice penale in materia di reati sessuali non è ancorato il principio “solo sì significa sì”, secondo cui ogni rapporto sessuale necessita del consenso di tutte le persone coinvolte. Uno stupro è considerato tale solo se viene applicata coazione, con violenza o minacce. Proprio su questo tema le Donne Socialiste* Svizzere stanno facendo pressione sul parlamento federale affinché ci sia finalmente una revisione del codice penale e si superi questa definizione restrittiva che limita la possibilità giuridica delle vittime di denunciare quanto accaduto e di ottenere giustizia.
Gli esempi sono numerosi e indice della nostra società patriarcale, in cui le donne e le minoranze sessuali devono ancora lottare per il riconoscimento della propria dignità e libertà. Un problema che ci riguarda tutte e tutti: perché ognuno di noi può essere vittima, perché ognuno di noi ha la responsabilità di non guardare dall’altra parte, perché il problema non sono solo singoli uomini ma il patriarcato!
E per quelli – e uso apposta solo il maschile – che ora si sentono attaccati dal mio discorso e si chiedono cosa centrano perché loro mica sono sessisti o violenti, rispondo riprendendo un dibattito che ha alimentato molto le discussioni su questo tema, riassunto sui social con l’hashtag #notallmen. Non tutti gli uomini – un hashtag usato da uomini che si sentivano attaccati dopo manifestazioni femministe negli Stati Uniti dopo una serie di casi di stupri.
È vero. Non tutti gli uomini sono strupratori. La maggioranza per fortuna non lo è. Ma tutti gli stupratori sono uomini.
È vero che la grande maggioranza degli uomini non manifesta abitualmente comportamenti sessisti o violenti. Ma questo non basta – perché ogni uomo e anche ogni donna ha la responsabilità di impegnarsi attivamente affinché non ci sia più violenza di genere, che non ci siano più molestie e sessismo. La responsabilità di dire ai propri amici o colleghi che determinati loro atteggiamenti o battute non sono accettabili. La responsabilità di sostenere le proprie figlie, mamme, compagne e amiche nella battaglia femminista. E soprattutto, la responsabilità di essere consapevoli che viviamo in una società in cui noi donne non abbiamo ancora gli stessi diritti. E questo è un problema strutturale che riguarda, appunto, l’intera società. Perché questa consapevolezza è il primo passo per cambiare davvero le cose.
#Notallmen. Ma #allwomen era nata come risposta sui social. #tutteledonne.
Tutte le donne sanno cosa vuol dire avere timori a camminare a casa da sole la sera, oppure ricevere fischie e battute se si mette una gonna, oppure di sentirsi trattate diversamente dai propri colleghi uomini, di venir considerata la segretaria quando si è in realtà la dirigente, di venir identificate tramite il proprio marito o padre, e gli esempi potrebbero continuare ancora a lungo.
Piccolezze se paragonate a quanto successo agli inizio degli anni 2000 nel DSS? Sì, ma episodi che nascono dalla stessa cultura patriarcale. Sono temi complessi che meritano maggiore spazio di discussione e di approfondimento – anche nel nostro partito. Per questo motivo come direzione abbiamo deciso di creare un gruppo di lavoro, coordinato da Federica Caggia e me, che partendo dal caso concreto cercherà di valutare cosa si può fare per migliorare l’aiuto alle vittime e le misure di prevenzione, ma anche di elaborare una strategia per sviluppare maggiormente nel partito una consapevolezza femminista. Un tema centrale in un partito come il nostro che mette in discussione da tempo la cultura patriarcale.
Per tornare al caso concreto del DSS, l’obiettivo oggi deve sì essere fare chiarezza su quanto accaduto e quanto non ha funzionato nei processi di segnalazione interni all’amministrazione cantonale, ma deve anche e soprattutto essere quello di guardare avanti. Guardare avanti per evitare che qualcosa di simile possa di nuovo accadere con vere misure di prevenzione e, se fosse il caso, di garantire un vero sostegno e appoggio alle vittime. Si tratta di non cadere invece nel facile giustizialismo e mediatizzazione come vorrebbero alcuni.
In queste settimane ho ricevuto, io personalmente ma anche come partito, diverse domande sul perché con la mia sensibilità femminista e solidarietà nei confronti di chi ha subito questa vicenda non abbia sostenuto la commissione parlamentare d’inchiesta. Un controsenso?
Assolutamente no. Come gruppo socialista ci siamo astenuti alla richiesta di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta e la reputiamo tuttora corretta. Sosteniamo invece la proposta di un audit esterno, attualmente discussa in commissione della gestione come vi riferirà successivamente anche Anna Biscossa, che ne è la presidente. Sosteniamo questa proposta di un audit perché pensiamo sia doveroso fare chiarezza su quanto accaduto dal profilo “amministrativo” e “gestionale” all’interno dell’amministrazione cantonale: cosa non ha funzionato dal profilo “procedurale” con le segnalazioni? Come vengono gestite attualmente segnalazioni del genere? Come si possono migliorare i processi per gestire queste segnalazioni? Cosa si può fare per fare in modo che qualcosa del genere non avvenga più?
Queste sono alcune delle domande aperte a cui bisogna trovare una risposta. Importante sottolineare che non centra il profilo penale: per questo c’è la magistratura che ha già fatto la sua inchiesta e i tribunali che emanano le loro sentenze.
Perché quindi riteniamo meglio un audit (esterno) e non una CPI lo strumento per dare una risposta a queste domande? Una CPI è composta da parlamentari con le maggioranze di questo cantone, mentre per un audit convochi degli esperti esterni (idealmente da fuori cantone. Su un tema così delicato e allo stesso tempo così complicato come i processi amministrativi di 15 anni fa, non siamo noi parlamentari le persone giuste per trovare delle risposte adeguate. Si rischia solo di banalizzare con slogan e mediatizzare questo tema fondamentale, che va affrontato invece con la giusta serietà ed expertise. Se lo meritano le vittime in questione, se le meritano le altre donne che subiscono violenze di cui non lo sappiamo, e ce lo meritiamo come società vuole superare le strutture patriarcali. Grazie mille compagne e compagni e sono felice di poter continuare al vostro fianco la battaglia femminista!
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